Il poliziotto cristiano …e il Papa!


“Sono un poliziotto e sono un cristiano”, uno “che di solito prega solo in caso di bisogno”. “Sono anche uno che, nonostante i problemi di tutti con la crisi, si ritiene comunque fortunato. Perchè a me il mio mestiere piace molto. Perchè è uno di quei lavori dove le cose non te le raccontano ma le vivi”.

“Noi poliziotti abbiamo l’odore di quello che accade”, “abbiamo la nostra pelle che tocca ed e’ toccata dalla violenza o dalla disperazione”. “Non sapevo bene che nome dare a tutto questo. Poi ho sentito Papa Francesco parlare dei problemi della sicurezza” e “questa cosa mi ha fatto brillare gli occhi”.“Mi sono proprio commosso, che se i colleghi se ne accorgevano non avrei saputo cosa dire”.Il collega racconta la sua commozione nel vedere le “immagini di Rio de Janeiro con la macchina del Papa presa d’assalto dalla gente” e nel sentire le parole di Francesco: “la sicurezza e’ fidarsi di un popolo… io preferisco la vicinanza… una pazzia che fa bene a tutti”.

“Ho scoperto cosa amo di quello che faccio ogni giorno con questa divisa che porto addosso. Amo la pazzia della vicinanza. Della vicinanza alle persone prima di tutto. Che non e’ sempre facile. Anzi. E che poi quella più’ difficile non è quando ti vogliono fare male. Ma quando ti trovi quelli a cui il male l’hanno fatto. Sono le ragazzine di altri paesi a cui hanno portato via la loro terra e la loro dignità. Sono i vecchi senza soldi fermati al supermercato perché si sono dimenticati di pagare una scatoletta di tonno. Sono i bambini nelle case che puzzano di alcool e botte. Ecco quello che noi incontriamo nel nostro lavoro: l’umanità non come idea ma come persone. Singole. Uniche. Difettose. Non belle. Ma disperatamente vere”.

E ancora: “Io sono uno che sta da vent’anni in polizia. Tanto tempo sulla strada. Come celerino o come uomo delle volanti. Ogni tanto a prendere le denunce dietro ad una scrivania. Ogni tanto a fare le pratiche. Insomma, uno come tanti, un poliziotto”. “Oggi, che e’ San Michele, mi sono tornate alla mente quelle parole. Quella frase che ogni tanto mi ripeto per cercare di capirne tutto il senso: ‘La sicurezza e’ fidarsi di un popolo’.

Mi piacerebbe poterlo dire a quelli che attaccano il cantiere della Tav dove ho lavorato, mangiato e giocato a carte con operai e camionisti.E che quando arrivano le molotov ti guardano e ti chiedono perché. A quelli che la domenica vengono allo stadio sognando di trovare uno di noi da solo per saltargli addosso. A quelli che per non fallire una rapina sono pronti a sparare a chiunque.“Ecco io credo che dovremmo tutti, proprio tutti, provare quella ‘pazzia della vicinanza’.

Tutte le sere, quando torno a casa mio figlio mi chiede quanti cattivi ho preso. E tutte le sere gli dico che ho catturato qualcuno. Certe volte imbroglio e gli racconto l’arresto di un collega. Stasera, invece, quando tornerò e mi farà la solita domanda risponderò così’:Nessuno, figlio mio. Ma sai, c’era una manifestazione di protesta e ad un certo punto qualcuno stava per lanciarci sassi e bottiglie. Ma la gente intorno li ha visti e li ha lasciati soli. E loro, quelli che volevano colpirci, sono andati via”. “Perchè un papà può rinunciare ad essere un eroe per suo figlio, solo se avrà la speranza che così, suo figlio, potrà appartenere ad un popolo che e’ artefice della sicurezza di ognuno”.

(FONTE QUESTURA DI ROMA)

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