C’ERA UNA VOLTA IL SUD… MA LA MEMORIA RESTA


Un’Italietta che non c’è più. Il vago ricordo di fame, miseria, povertà estrema – e della loro dignitosa convivenza con l’umiltà di chi praticava un mestiere modesto, con spirito di sacrificio, coerenza e senso del dovere per portare avanti la famiglia – riecheggia tra le pagine di “C’era una volta il Sud” l’ultima fatica letteraria di Marcello Veneziani, presentata recentemente con grande successo in un esclusivo evento culturale organizzato dal dinamico Presidente di Polo Sud on. Amedeo Laboccetta al Teatrino di Corte a Palazzo Reale di Napoli: l’autore che, per sua stessa ammissione, considera il Meridione «infanzia del mondo, provincia dell’universo, luogo d’ombre e di luce della nostalgia, casa dei miti» non tralascia di riportare alla memoria ciò che ci siamo lasciati alle spalle – in un’epoca non così remota – dopo il boom economico, dopo il raggiungimento del benessere che acquieta le coscienze alimentando la tensione spasmodica verso una vita più stimolante, popolata di sogni e fantasie che disancorano dalla cruda verità dei fatti. Quante risalite sociali, quanti gradini su cui arrampicarsi per assurgere a ruoli e status lontani anni luce dalle proprie vite hanno da allora in poi portato tanta gente a compromessi, a indebitamenti, alla perdita di virtù morali, all’abbandono di principi etici, di correttezza, di rispetto delle regole? Fastidiosa sensazione quella di rivedere nero su bianco le nostre radici, di ritrovare l’odore stantìo dell’indigenza nelle foto di squallide abitazioni, campagne desolate, borghi diroccati, di risentire l’odioso giogo delle ristrettezze economiche della nostra patria riaffiorare dalle immagini di vite consumate su strade, marciapiedi, campagne assolate, fabbriche disumanizzanti, coltivando nel segreto del proprio cuore la speranza di “farcela” di uscire dalla miseria, di “trovare l’America”.
Quest’Italietta che fu… portava i vestiti dismessi dei fratelli maggiori risvoltati e rattoppati, riteneva inesorabile la durezza della solitudine dei marinai lontani dalla famiglia e dagli affetti nei lunghi mesi – se non anni – delle infinite traversate per mare, sopportava la vita contadina che incartapecoriva la pelle per le ore passate sotto il sole a rivoltare zolle indurite per seminare e coltivare nuove piante, trovava inevitabile l’affrontare il mare in tempesta ( e, forse, la morte) dei pescatori per poter sostentare la propria famiglia.
Il contraltare di tanti sacrifici era per alcuni un’illusoria fuga nel piacere, quel breve guizzo che donavano le case di tolleranza a chi spendeva in una notte l’intera paga di una settimana o di un mese per trovare sollievo all’angoscia soffocante di trascinare un’esistenza costretta a pensare solo al necessario per sopravvivere: la greve materialità di un atto lubrico sembrava l’univa via di scampo alla noia, alla fatica, al peso delle privazioni, alla disparità sociale, nella ricerca di una soddisfazione che la vita negava altrove. Veneziani ricostruisce il ritratto di un passato che molti vorrebbero dimenticare, seppellire sotto una coltre di modernità, dando una lucidata ingannatrice alla superficie della realtà: il Dovere – una parola oggi così desueta rispetto ai Diritti che tutti enunciano continuamente – era la regola che impediva il raggiungimento di molti traguardi e, quindi, l’uscita dal tunnel stretto e insopportabile di una vita dominata dagli stenti e priva di alternative.
Il cambiamento è avvenuto lentamente – talvolta in modo impercettibile – negli anni del dopoguerra in cui dominava la voglia di rialzarsi dopo la sconfitta, lasciarsi dietro gli orrori del conflitto, ricostruire la nazione, assicurare un futuro migliore ai propri figli, raggiungere nuovi obiettivi: la sublimazione di tali aspettative culminava principalmente nelle feste dei matrimoni che permettevano di riscattare un’intera esistenza in una giornata da ricordare per sempre e di cui le foto in bianco e nero del libro sono mute quanto eloquenti testimoni.
Questi momenti, queste situazioni, queste parentesi cariche di emozione punteggiavano le vite, scandite dalla nascita alla morte dai sacramenti – battesimo, comunione, cresima, matrimonio ed estrema unzione – e improntate al rigore, alla disciplina e alla severità: la fretta e la furia di vivere, invece, che contraddistingue la nostra epoca ha soppiantato pienamente la pazienza, le lunghe attese, la noia esistenziale che ha caratterizzato il trapassato prossimo del nostro paese. La difficoltà di vivere in campagne sterminate, montagne disabitate, chilometri di costa popolate solo d’estate, le ha svuotate della gioventù che preferisce spostarsi verso i centri abitati, le città cariche di luci, di insegne roboanti, di attrazioni, di possibilità di fare fortuna: questa noia, questa povertà, questa solitudine hanno cambiato il volto della nazione proiettandoci in un universo globalizzato, digitale, sempre interconnesso.
Soffocata la nostalgia di antichi valori, questa dispersa umanità rifugge dal rivedere o rivivere quel periodo storico per non sentirsi inadeguata all’etica, agli ideali, alla responsabilità morale che lo improntava: erano tempi duri, difficili, dolorosi, che hanno lasciato un retaggio gravoso sulle spalle del nostro meridione d’Italia ma erano pervasi da una forza morale, da codici d’onore e da un afflato spirituale scomparso, forse per sempre, in quel Sud che non c’è più.

 

LAURA CAICO

 

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